Ricorso  per  illegittimita'  costituzionale proposto dalla regione
 Lombardia,  in  persona  del  presidente  in  carica   della   giunta
 regionale,   dott.  Florinda  Ghilardotti,  a  cio'  autorizzata  con
 delibera della giunta regionale, che  verra'  debitamente  depositata
 con  il  ricorso  notificato, rappresentata e difesa, per mandato del
 presente atto, dagli  avvocati  Maurizio  Steccanella,  del  foro  di
 Milano,  e Giovanni C. Sciacca, del foro di Roma, presso il quale, in
 Roma, via G. B. Vico, n. 29, elegge domicilio, contro e nei confronti
 della  Presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri,  in   persona   del
 Presidente  del Consiglio in carica, sedente in Roma, piazza Colonna,
 palazzo  Chigi,  ed  altresi'  legalmente   domiciliata   presso   la
 Avvocatura  generale dello Stato, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,
 per la declaratoria di illegittimita'  costituzionale  in  parte  qua
 dell'art. 2, primo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, recante
 "Revisione  dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle
 regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. h), della legge  23
 ottobre  1992,  n.  421",  pubblicato  nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica italiana, n. 42 del febbraio 1993, la' dove si  stabilisce
 che  il  Presidente del Consiglio dei Ministri "emana direttive" alle
 commissioni statali di  controllo  sugli  atti  amministrativi  delle
 regioni;  nonche'  per  la conseguente declaratoria di illegittimita'
 costituzionale del terzo  comma  del  medesimo  articolo  del  citato
 d.P.R.,  con  riferimento  alla  parte  nella quale si dispone che il
 comitato  tecnico, istituito a mente del precedente secondo comma del
 medesimo articolo, "propone al Presidente del Consiglio dei  Ministri
 l'adozione delle direttive di cui al primo comma".
                               F A T T O
    1.  - La legge 23 ottobre 1992, n. 431, recante "Delega al governo
 per la razionalizzazione e la revisione delle discipline  in  materia
 di   sanita',  di  pubblico  impiego,  di  previdenza  e  di  finanza
 territoriale",  all'art.  2,  intitolato   "Pubblico   impiego",   ha
 conferito  delega  al Governo della Repubblica per emanare uno o piu'
 decreti legislativi, dettando (art. 76 della Costituzionale),  quanto
 all'oggetto,  ai  principali  e  ai  criteri direttivi degli emanandi
 decreti, i seguenti: (primo comma, lett. h): ..prevedere la revisione
 dei   controlli   amministrativi   dello   Stato    sulle    regioni,
 concentrandolo  sugli atti fondamentali della gestione ed assicurando
 la audizione  dei  rappresentanti  dell'ente  controllato,  adeguando
 altresi'  la  composizione degli organi di controllo anche al fine di
 garantire la uniformita'  dei  criteri  di  esercizio  del  controllo
 stesso".
    2.  -  Nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica italiana del 20
 febbraio 1992, n. 42, e'  stato  pubblicato  il  decreto  legislativo
 emanato   in   attuazione  specifica  di  quella  particolare  delega
 legislativa, vale a dire il d.P.R. 13 febbraio 1993, n.  40,  recante
 "Revisione  dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle
 regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. h), della legge  23
 ottobre 1992, n. 421".
    3.  -  Tale  d.P.R.,  dopo  aver  premesso  -  all'art. 1 - che il
 controllo e' e rimane "di legittimita'" e  dopo  avere  espressamente
 esclusa  ogni diversa valutazione dell'interesse pubblico perseguito,
 specifica analiticamente quali siano i  ritenuti  "atti  fondamentali
 della gestione", e quindi dispone, all'art. 2, primo comma, che "Allo
 scopo di assicurare il coordinamento 'o' di favorire comuni indirizzi
 nella  attivita'  di  controllo",  il  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri emana "direttive" alle commissioni statali di controllo.
    4. - Successivamente, il terzo  comma  del  medesimo  art.  2  del
 citato  d.P.R.,  sancisce  che  il  comitato  -  definito  tecnico  -
 istituito dal precedente secondo comma,  formuli  al  Presidente  del
 Consiglio   dei   Ministri  proprie  proposte  per  l'adozione  delle
 anzidette "direttive".
    5. - Le disposizioni di cui sopra, oggetto del  presente  ricorso,
 appaiano  costituzionalmente  illegittime,  sotto i seguenti profili:
 violazione dell'art. 125 della Costituzione;  violazione  conseguente
 dell'art.  118  della  Costituzione;  violazione  dell'art  76  della
 Costituzione.
    Esse, vanno, pertanto dichiarate  costituzionalmente  illegittime,
 in  accoglimento presente ricorso che si fonda sulle seguenti ragioni
 di
                             D I R I T T O
    1. - Violazione dell'art. 76  della  Costituzione  ed  esorbitanza
 rispetto  ai  limiti  della  delega  legislativa conferita al Governo
 della Repubblica.
    La legge delega (23 ottobre 1992, n.  421)  ha  esteso  la  delega
 conferita  al  Governo  della Repubblica alla materia della revisione
 del sistema dei controlli sugli atti  amministrativi  delle  regioni,
 con   evidente  limitato  riferimento  all'ordinamento  del  pubblico
 impiego,   se   solo   si  considera  che  tale  e'  l'oggetto  e  la
 intitolazione dell'art. 2, nel quale e' inserita, al primo  comma  la
 lett.   h)   che   quella   specifica  delega  attribuisce  (criterio
 "sistematico" della interpretazione).
    Poiche' nel nostro sistema costituzionale, la potesta' legislativa
 appartiene al Parlamento, laddove una potesta'  legislativa  delegata
 al  Governo  rappresentata  una  eccezione,  come tale (artt. 76 e 77
 della  Costituzione)  circoscritta  entro  limiti  ben   definiti   e
 tassativi,   tali   da   costituire   indubbio  criterio  di  stretta
 interpretazione di ogni e qualsiasi legge di delega, non pare  dubbio
 che  la  collocazione  della  norma  in  questione  nell'ambito della
 specifica disciplina concernente il pubblico impiego, comporta quanto
 meno il "dubbio" che il legislatore delegato (Governo) potesse, senza
 violare l'art. 76 della Costituzione, riformare profondamente in  via
 generale  l'istituto  del  controllo  sugli atti amministrativi delle
 regioni, esprimendosi  -  appunto  -  per  verba  generalia  e  senza
 limitarsi  all'oggetto definito", quale esso risultava indirettamente
 dalla rubrica e dal restante contenuto dell'art. 2 della legge delega
 n. 421/1992.
    Al di la' di cio', tuttavia, ed in secondo luogo, ben altre e piu'
 rilevanti appaiono le "esorbitanze"  addebitabili  alla  decretazione
 delegata in argomento, rispetto alla delega conferita dal Parlamento.
    Infatti,  al  dichiarato scopo di ridurre l'ambito oggettivo della
 attivita' di controllo da "concentrare sugli atti fondamentali  della
 gestione",  e  secondo  l'imposto  criterio  di delega di "assicurare
 l'audizione     dei     rappresentanti     dell'ente     controllato"
 (istituzionalizzazione    di    una    sorta   di   "contraddittorio"
 procedimentale  nell'esercizio  del  controllo),  il  Parlamento   ha
 ulteriormente  dettato  il  "criterio  direttivo" (sempre in ossequio
 all'art. 76 della Costituzione) secondo  il  quale  "anche"  al  fine
 (considerato,   dunque,  un  fine  complementare  e  per  cosi'  dire
 "secondario") di garantire la uniformita' "dei criteri" di  esercizio
 del  controllo,  che  e'  cosa  ben diversa da una pretesa e presunta
 "identita' cogentemente predeterminata" della attivita' di  controllo
 nella  sua  concreta  esplicazione  (singoli  atti  di controllo), il
 Governo  della  Repubblica  poteva  procedere  all'adeguamento  della
 composizione degli organi di controllo (commissioni statali).
    Era   pertanto   evidente  l'intento  del  legislatore  delegante:
 consentire  al  Governo   di   perseguire   "anche"   quell'obiettivo
 ("uniformita'  dei meri criteri") operando - tuttavia - a questo fine
 con lo  specifico  e  individuato  strumento  dell'adeguamento  della
 composizione    degli    organi    (omogeneita'   di   qualificazione
 professionale, comunanza di "sensibilita'"  giuridico-amministrativa,
 eguale  estrazione  in chiave di prevedibile consonanza rispetto alle
 esigenze da tutelare  nell'esercizio  del  controllo,  ecc.),  e  non
 altrimentiÝ
    Viceversa,  l'art.  2,  secondo comma, del decreto-delegato omette
 del tutto di "armonizzare" e di rendere "omogenee", quanto alla  loro
 composizione, le commissioni statali di controllo, istituendo, invece
 -  il  che  e'  tutt'altra cosaÝ - un comitato tecnico "centrale", al
 quale e' demandato ben altro e piu' incisivo compito:
       a)  "assicurare  il  coordinamento",  che e' anch'essa cosa ben
 diversa dal semplice "garantire la uniformita'  dei  soliti  criteri"
 (legge delega);
       b)  ovvero  ("o")  "favorire  comuni  indirizzi",  che, pur con
 qualche sforzo interpretativo, puo' ritenersi  accezione  equivalente
 al "garantire la uniformita' dei criteri" di cui alla legge delega.
    Appare  chiaro, allora, che il Governo - legislatore delegato - ha
 ecceduto rispetto ai limiti della delega,  non  solo  nel  modus  (un
 comitato tecnico centrale, in luogo di commissioni statali omogenee),
 ma  nello  "oggetto  definito"  individuato  nella delega legislativa
 conferitagli, perche' se si e' voluta favorire la  uniformita'  degli
 indirizzi,  vi  si e' aggiunto ("o") un "coordinamento" delle singole
 commissioni, del  tutto  assente  dalla  previsione  della  legge  di
 delegazione  ed attuato attraverso la creazione di un apposito organo
 centrale assolutamente non previsto in essa.
    Molto piu' grave appare,  tuttavia,  la  esorbitanza  rispetto  ai
 limiti  della  delega  legislativa,  allorche'  ci  si  imbatte nella
 attribuzione  di  una  potesta'   di   impartire   "direttive"   alle
 commissioni  statali  di  controllo,  attribuita  al  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri, ed altresi' in una funzione di proposta circa
 il contenuto di  tali  direttive,  attribuita  al  comitato  tecnico,
 assolutamente  non  previsto  ne' come tale, ne' quanto all'anzidetta
 funzione, dalla legge delega, la quale  aveva,  invece,  affidato  il
 soddisfacimento   della  (diversa)  esigenza  di  garantire  la  mera
 uniformita' di criteri al solo  mezzo  di  adeguare  la  composizione
 degli  organi  deputati  ad  applicare  i  criteri  stessi,  cioe' al
 concreto esercizio del controllo.
    2. - Violazione degli artt. 125, e - di riflesso - dell'art.  118,
 nonche', sotto altro profilo, ancora dell'art. 76 della Costituzione.
    Che  il  controllo  sugli atti amministrativi delle regioni (come,
 del resto, ogni altra ipotesi di  controllo  di  questa  specie,  nel
 nostro  attuale  ordinamento)  sia  unicamente  un  controllo di mera
 legittimita', non puo' essere assolutamente posto in dubbio:  sarebbe
 addirittura irriguardoso soffermarvisi.
    L'art.   125  della  Costituzione,  correlato  con  la  conclamata
 pienezza  delle  funzioni  amministrative  spettanti  alle   regioni,
 l'esercizio  delle  quali da' - appunto - luogo alla produzione degli
 atti assogettati al controllo, costituiscono disposizioni  e  pongono
 principi   basilari  del  sistema  istituzionale  autonomistico,  non
 suscettibili di elusione o di "erosione"  da  parte  del  legislatore
 ordinario.
    Se  non  bastasse, la "Carta Europea dell'autonomia locale" del 15
 ottobre 1985, ratificata e resa esecutoria in Italia,  con  legge  30
 dicembre  1988,  n.  439,  sancisce,  all'art.  8,  secondo comma, il
 medesimo principio, palesemente principio  fondamentale  del  vigente
 ordinamento giuridico.
    Non solo ..
    Lo  stesso  d.P.R.  n.  40 del 13 febbraio 1993, oggetto, in parte
 qua, di impugnazione in questa  sede,  esordisce  (art.  1)  con  una
 affermazione   categorica,  allorche',  ribadendo  il  carattere  "di
 legittimita'" del controllo, ha cura  di  specificare  "esclusa  ogni
 diversa  valutazione dell'interesse pubblico perseguito", il che, non
 potendo rappresentare  una  inutile  e  ovvia  ripetizione  del  gia'
 confermato   carattere  di  mera  legittimita'  del  controllo,  sta,
 piuttosto a significare che, anche sul, terreno  della  legittimita',
 resta  escluso  il vaglio del c.d. "eccesso di potere" che e' - si' -
 vizio di legittimita', ma bene spesso consiste  nell'irragionevole  o
 ingiustificato   apprezzamento  di  pubblici  interessi,  ovvero  nel
 distorcimento o nella trascuranza  di  essi,  ovvero  ancora  in  una
 travisata,  discriminatoria,  apparente, incongrua, contraddittoria o
 immotivata loro valutazione.
    Configurato  il  controllo  entro  limiti  siffatti  (in  pratica,
 destinato  a rilevare soltanto violazioni di legge, o incompetenza di
 organi), riuscirebbe  gia'  ..  difficile  collocare,  nell'esercizio
 della  funzione  da  parte  delle  commissioni statali, "criteri" che
 eccedano  i  generali  canoni   ermeneutici   e   le   regole   della
 interpretazione delle norme.
    Ancora  piu' arduo diviene scorgere quali possano essere i "comuni
 indirizzi", previsti, sia pure come attribuzione del comitato tecnico
 istituito con il secondo comma, dell'art. 2 del d.P.R. in  argomento,
 giacche'  un  "indirizzo"  nel  rilevare o non rilevare violazioni di
 legge o vizi di incompetenza, o -  se  si  vuole  -  inosservanze  di
 limiti  finanziari  e  di vincoli di bilancio, esiste in rebus e deve
 essere in ogni caso "comune" a  tutte  le  commissioni:  quello  -  e
 quello  soloÝ  - di non consentire trasgressioni ai precetti vigenti,
 specie se si riflette  che  -  come  detto  all'inizio  -  la  delega
 legislativa  di  cui  si  tratta  e'  stata  concepita  e  inquadrata
 sistematicamente  nella  materia  del  pubblico  impiego,   regolata,
 quant'altre mai, da disposizioni inderogabili e puntualiÝ.
    Ma  il  d.P.R.  n.  40/1993 attribuisce, invece, al Presidente del
 Consiglio dei Ministri una potesta' di  impartire,  alle  commissioni
 statali  di  controllo, proprie "direttive" (art. 2, primo comma), ed
 altresi' attribuisce (terzo comma del medesimo articolo) al  comitato
 tecnico  che  e'  organo  centrale della amministrazione dello Stato,
 composto per 5/7 da personale della amministrazione  (o  appartenente
 ad   organi)   dello  Stato,  e  per  i  restanti  2/7  non  gia'  da
 amministratori delle regioni controllate, ne' da  persone  da  questi
 ultimi  designate,  ne'  da  esperti  "esterni", ma da meri impiegati
 regionali, un potere di formulare al  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri   le  proposte  concernenti  il  contenuto  delle  anzidette
 "direttive".
    Si   constata,   in   tal   modo,   una   autentica   e   visibile
 "gerarchizzazione"   dell'esercizio   del  controllo,  in  quanto  le
 "direttive" costituiscono un istituto tipico del rapporto gerarchico,
 o almeno di un rapporto di sovraordinazione funzionale.
    Non vi e' alcun bisogno di cimentarsi in ricerche .. semantiche  o
 lessicali,  per  convincersi  che  l'istituto  della  "direttiva"  si
 ricollega ad una potesta' di imperio esercitabile nei confronti di un
 soggetto legato da vincolo di subordinazione.
    La "direttiva" e' solo un sinonimo dello "ordine di servizio",  o,
 se  si  preferisce, della "circolare" che l'organo centrale e apicale
 emette nei confronti  dei  soggetti  sottordinati  e  periferici  che
 debbono prestarvi osservanza.
    Il  controllo  diviene, in tal modo, estrinsecazione gerarchizzata
 di amministrazione attiva, snaturandosi del tutto  in  se  stesso,  e
 ponendosi  in aperto conflitto con gli artt. 125 e, conseguentemente,
 118 della Costituzione, dal punto  di  vista  della  autonomia  delle
 regioni,   gli   atti  delle  quali  possono,  viceversa,  soggiacere
 unicamente ad un controllo di legittimita' che deve essere esercitato
 attraverso  un  "giudizio"  dell'organo  a cio' deputato, a sua volta
 sottratto e qualsivoglia subordinazione che condizioni, con  criterio
 burocratico e gerarchico la espressione del giudizio medesimo.
    Non  e'  il  caso  di spingersi a considerare la magistratura e la
 funzione giurisdizionale (pur con cio' che si dira' circa la  essenza
 "paragiurisdizionale"  della  attivita'  di  controllo),  ma bastera'
 considerare che il nostro ordinamento non consentirebbe alcuna specie
 di  "direttiva"  intesa   a   vincolare   i   giudizi   dei   docenti
 nell'esercizio  della loro attivita' di valutazione dei discenti, o i
 giudizi dei collaudatori delle  opere  pubbliche,  ovvero  i  giudizi
 delle   commissioni  mediche  militari,  seppur  impartite  parte  di
 ufficiali medici superiori in grado (per far soltanto alcuni  esempi)
 ..
    Solo  negli  ambiti  della amministrazione attiva e all'interno di
 una organizzazione gerarchica puo' darsi ingresso a istituti come  la
 "direttiva",  ma  la  funzione  di controllo non e', per definizione,
 esercizio di amministrazione attiva, ne' le commissioni di  controllo
 possono  assimilarsi  a  organi od uffici subordinati a quale che sia
 organo od ufficio loro funzionalmente sovraordinato.
    Tanto valeva, a questo punto, proporre una riforma  costituzionale
 intesa  a  ripristinare  il controllo da parte dei prefetti (i quali,
 gerarchicamente subordinati all'esecutivo, sono, per  loro  natura  e
 collocazione, soggetti destinatari di ogni sorta di "direttive")Ý.
    Non  a caso si e' parlato di carattere "paragiurisdizionale" della
 funzione di controllo.
    Tale carattere discende, innanzitutto, dal contenuto di "giudizio"
 che essa ha; e tale carattere risulta - paradossalmente -  accentuato
 dalla  stessa  legge  delega 23 ottobre 1993, n. 421, la quale ebbe a
 porre,   come   uno   dei   "criteri"   della   delega,   quello   di
 "istituzionalizzare"il  "contraddittorio  procedimentale",  allorche'
 (lett.  h)  del  primo  comma,  dell'art.  2,  essa  dispose  per  la
 "assicurazione   della   audizione   dei   rappresentanti   dell'ente
 controllato".
    Senonche', della "assicurazione della audizione dei rappresentanti
 dell'ente (regioni) controllato", non vi e'  traccia  nel  d.P.R.  13
 febbraio  1993, n. 40, per cui qui si deduce una ulteriore violazione
 dell'art. 76 della Costituzione, sotto  specie  di  inosservanza  dei
 "criteri  direttivi"  della  delega  legislativa,  con  evidentissima
 lesione della autonomia costituzionalmente riconosciuta alle regioni.
    Queste ultime, infatti, pur soggette a subire,  in  occasione  del
 controllo esercitato sui loro atti, gli effetti delle "direttive" del
 Presidente del Consiglio dei Ministri, non risultano affatto poste in
 condizione   di  vantare  una  posizione  giuridica  legislativamente
 consacata e  tetelabile  ad  essere,  quanto  meno,  "audite",  nella
 concreta  estrinsecazione  del  procedimento  di controllo sui propri
 atti ..
    In dottrina, Onorato Sepe, alla voce  "Controlli",  nella  recente
 "Enciclopedia giuridica Treccani", si esprime come segue.
    "La  struttura del potere di controllo e' stata vista a lungo come
 un  accertamento  (giudizio  sulla  attivita'  controllata)  ..".   E
 soggiunge:  "Nell'ambito  delle  definizioni appare ancor oggi quindi
 veramente comprensiva quella di un potere che,  avendo  per  fine  la
 tutela    di    valori    espressi   o   istituzionalmente   protetti
 dall'ordinamento, si struttura in un giudizio sulla normalita' o meno
 dell'agire  ..  Come  corollari  sono  da  assumere  quelli  .. della
 tipicita' del controllo ..".
   Ancora piu' significativo  e'  quanto  lo  stesso  autore  (ibidem)
 afferma  subito  dopo:  "la  dottrina  ..  ancorandosi al concetto di
 neutralita' dei controlli, ha ritenuto che il controllore  non  debba
 perseguire  fini  concreti  (questi sono propri della amministrazione
 attiva), ma debba esigere  il  rispetto  dei  canoni  astratti  posti
 dall'ordinamento".
    Se  si  riflette  che  lo  stesso d.P.R. qui impugnato esclude dai
 contenuti del controllo la valutazione dello  eventuale  "eccesso  di
 potere"  dell'atto  controllato  ("esclusa  ogni  diversa valutazione
 dello  interesse  pubblico  perseguito  .."),  riuscirebbe  difficile
 rinvenire  una  piu' appropriata e perspicua definizione giuridica di
 quella citata del Sepe, della funzione di controllo, per  l'esercizio
 della   quale   una   qualsiasi   previsione  di  "direttive"  appare
 snaturante, istituzionalmente aberrante e  quindi  costituzionalmente
 illegittima.
    La   Corte   dei   conti,   pur   avendo  rango  istituzionale  di
 magistratura, adempie a funzioni non dissimili, e  di  certo  nessuno
 pensa  che  essa  possa  essere  oggetto  di  "direttiva" da parte di
 chicchessi'a.
    Piace ricordare, infine, che lo stesso autore citato  (Sepe)  con-
 clude affermando che taluno (Nulli A.S. "I controlli sugli atti degli
 ee.  territoriali  nella Costituzione", in Riv. Trim. Dir.  Pubblico,
 1972, I, 78; Saraceno D. "Il  sistema  dei  controlli  amministrativi
 nello  stato  delle  autonomie",  in  Nuova  Rass.  1980,  n.   1) ha
 sostenuto  che  i  controlli  dovrebbero  essere  demandati   ad   un
 "magistrato che operi super partes".
    E' costituzionalmente ammissibile che organi esecutivi dello Stato
 possano, in subiecta materia, impartire "direttive"?. Certamente no.
    Il  carattere "paragiurisdizionale" della funzione di controllo e'
 evidenziato anche dalle forme nelle quali essa si  esercita:  termini
 tassativi,  decadenze,  divieto  di  rilevare  ulteriori  elementi di
 giudizio al di fuori di quelli inizialmente rilevati e  richiesti  ad
 integrazione (unicita' delle ordinanze c.d. "istruttorie"), efficacia
 del silenzio, ecc., ecc..
    Cosi'  stando le cose, non appare in alcun modo costituzionalmente
 legittima la previsione di una  potesta'  di  "direttiva"  che  possa
 essere esercitabile dal Presidente del Consiglio dei Ministri, (con o
 senza  proposta formulatagli da un organo ugualmente "centrale" dello
 Stato, quale e' il comitato tecnico,  non  previsto  dalle  legge  di
 delega)   nei  confronti  degli  organi  deputati  all'esercizio  del
 controllo.
    Cio', anche a prescindere dalla vistosa esorbitanza rispetto  alla
 delega legislativa, gia' dedotta ed argomentata nella prima parte del
 presente ricorso.
    Un'ultima notazione.
    La  legge  delega (sotto questo profilo, ottemperata dal d.P.R. n.
 40) si e' proposta  di  "ridurre"  l'ambito  degli  atti  soggetti  a
 controllo  ("atti fondamentali della gestione"), per cui si evidenzia
 come  ulteriormente  illegittima,  anche  sotto  il  profilo  di  una
 irragionevole   contraddittorieta'   rispetto   alla   volonta'   del
 legislatore    delegante,    la     contestuale     e     burocratica
 "gerarchizzazione"  della  funzione,  quale  risulta dal neoistituito
 potere di "direttiva".
    In  realta',  attraverso il potere di "direttiva", il controllo in
 questione si trasforma in  "cogestione",  in  "approvazione",  in  un
 sistema  istituzionale  di  atti  complessi  sia  pure a complessita'
 diseguale, per cui organi dello Stato (Presidente del  Consiglio  dei
 Ministri - comitato tecnico "centrale") si ingeriscono nella gestione
 degli  affari regionali e nell'esercizio delle funzioni che alle sole
 regioni, viceversa, competono, il che e' del  tutto  al  di  fuori  e
 oseremmo dire agli antipodi del sistema istituzionale delineato dalla
 Costituzione della Repubblica.